La musica (a noi) contemporanea

Suddivido la musica classica “contemporanea”, quella cioè scritta nel nostro tempo, in due casistiche principali. Ovviamente per fare questo, lascio il bisturi e taglio con l’ascia la questione:

Categoria 1. Prima o poi l’amore arriva…veramente. 

La musica, in oggetto, è fuori dalla casistica, stile, humus, sapore (scegliete voi) tradizionale. Una musica che però, in poco tempo, si assimila e si riesce a goderne. È un tipo di musica che possono eseguire anche i non professionisti, conserva nel ritmo e nelle melodie qualcosa di “interpretabile”, riconoscibile.

Il Requiem di Rutter, che studieremo in questa prima parte dell’anno, fa parte di questa casistica, così come i brani di Gjeilo (Pulcra est) o Lauridsen (O nata lux). Anche questi due brani, talvolta, fanno penare all’inizio.

Categoria 2. Pensavo fosse amore invece era un calesse.

Qui l’amore non arriva mai. Di solito questa musica anche con il passare dei decenni resta così com’era, indigeribile, inassimilabile. Degli innamorati ci sono, chiaramente, non sono neanche pochi, ma non parliamo di folle oceaniche.

Se ne riesce a godere? Assolutamente si! Il godere di una musica poco a che fare con il “piacere”, sono campi separati. 

Il piacere potremmo dire che ha a che fare con la trasmissibilità dell’opera, del suo facile riverbero tra gli umani . Il goderne no. È qualcosa di personale, che tante volte coincide con il compositore stesso o con un manipolo di addetti al fenomeno, in questo caso.

Spesso, chi esegue queste composizioni è un professionista o quantomeno ha un atteggiamento professionale. Spesso anche gli ascoltatori lo sono (professionali).

Ci sono, inoltre, opere che appartengono alla categoria definibile dei capolavori. 

Quella che attraversa i secoli eppure è sempre attuale. Ci viene consegnata ogni giorno (l’opera) come fosse scritta ieri.

Qui il tempo non vale, né per il rapporto con uno stile, né per la lontananza da noi. È un tempo assoluto, che circoscrive una regione culturale sincronica piuttosto che diacronica. Non c’è un prima e un dopo. C’è un sempre.

Il pubblico e gli esecutori ne sono dannatamente ghiotti!

(Qui un articolo, molto più articolato, di Serge Cottet)